Radici
è una mostra di opere degli artisti: Gloria
Campriani, Andrea Dami, Mario Girolami e Astrid
Hjort legate a un tema caro a Giovanni
Michelucci: il rapporto uomo-natura,
che ha caratterizzato il suo lavoro di costruttore (e che sono esposte
al Centro di Documentazione nel Comune di Pistoia, insieme ai numerosi
lavori michelucciani). Alberi, ragnatele, nervature di conchiglie sono
una parte degli appunti grafici di Michelucci pronti per essere
trasformati in pilastri, travi e coperture. Infatti per Michelucci
vivere la natura non significava abbandonare la città, ma
piuttosto abitarla e modellarla.





La
natura, per l'architetto pistoiese, non è un riferimento
formale da guardare e imitare, ma un processo di trasformazione
continua da comprendere ed entro cui inserirsi ed è da tale
atteggiamento che deriva l’interesse per i sistemi di
relazioni,
più che per gli elementi costituenti, e fra questi i
più
interessanti divengono quelli marginali, fragili, diversi, nei quali
è possibile intuire precocemente le variazioni di sistema.
“Natura come metodo” ha scritto Roberto
Agnoletti. Insomma nell’opera e nel pensiero
progettuale elaborati da Michelucci, nel suo viaggio lungo
un secolo
(Pistoia 1891 - Fiesole 1990), il tema centrale è
rappresentato
dal rapporto tra mondo naturale e trasformazioni antropiche, rapporto
spesso conflittuale, ma foriero di riflessioni metodologiche e
filosofiche. Questi spunti di riflessione hanno coagulato
l’interesse dei quattro artisti visivi che, oltre a rendere
omaggio all’illustre concittadino, hanno cercato di
verificare
l’attualità della metodologia michelucciana
confrontandosi
operativamente. Dal rapporto dialogico fra nuove opere visive e la
documentazione grafica della progettualità di Giovanni
Michelucci scaturiranno ulteriori stimoli di studio e di riflessione.




“Il
titolo Radici
è stato scelto perché fosse chiaro, da subito
-scrive Siliano Simoncini
sul catalogo- il rapportarsi con il messaggio lasciato da Giovanni
Michelucci e con la sua poetica, presentando opere in grado di
dialogare con l’esistente. Come i disegni di progetto di
Michelucci sono radicati alla terra, alla natura, alla sua Toscana,
addirittura da presentarsi come forze primigenie scaturite da
capovolgimenti tettonici, così le opere di Gloria Campriani,
Andrea Dami, Mario Girolami e Astrid Hjort intendono rapportarsi a
questo messaggio, ritenendo la periodicizzazione della natura il
riferimento costante. Dunque non un esplicito richiamo stilistico alla
morfologia delle architetture di Michelucci, né tanto meno
al
suo imperioso linguaggio grafico; piuttosto un’operazione di
tipo
concettuale che in maniera didascalica affronta le problematiche con
intenti metaforici.
Per i quattro artisti il tema della natura, proposto
dall’architetto pistoiese, è pretesto per
dialogare
intimamente con la problematica ecologica, con il disincanto attuale,
con la disattenzione dell’uomo odierno nei confronti della
“storia” scritta dalla natura.
L’arte al servizio dell’impegno civile,
l’arte come
etica... questo intendono gli artisti. Le loro opere esigono dal
fruitore una riflessione attenta e partecipe, ovvero, quasi gli
“impongono” di fare delle scelte precise, di
impegnarsi
affinché anche il suo più piccolo contributo
possa
influire sul destino del mondo”. Simoncini chiude il suo
pensiero
con questa frase piena di speranza: «Chi ha fiducia
nell’uomo non può fare a meno di credere che
ciò
sia possibile».


Gloria
Campriani
Curve
Metamorfosi
Un rudimentale intrecciarsi di
“fili” dalla cui orditura emergono rami naturali.
È la terra che, dopo essere stata distrutta
dall’opera
dell’uomo, sta rinascendo? Oppure è ciò
che rimane
dopo il vilipendio subito? L’interrogativo è
aperto in
questo lavoro espressionista di nuova matrice, scrive Siliano Simocini
nel catalogo.


Astrid
Hjort
Occhi
Sguardi
La natura ci guarda. Ci giudica. Questi lavori
acquerellati ci offrono un racconto quasi fiabesco (dice Simoncini),
illustrativo del mondo esterno all’uomo; quel mondo naturale
narrato dalle nonne e rivissuto da adulti come un sogno ancestrale in
grado di consolare le inquietudini quotidiane. Foglie, rami, tronchi,
si apparentano in un fluire ininterrotto e ci parlano di un luogo
incontaminato al cui interno la presenza arcana di uno sciamano?
costituita dal suo occhio vigile e imperioso, si mostra a chiunque per
affermare che soltanto attraverso la “cura” e il
“rito” si ha il diritto di tutelare quanto il tempo
ci ha
lasciato in eredità e che va assolutamente preservato.


Mario
Girolami
La casa
blu
Un piano segnato da piccoli segni è la
base per il
modello di un’abitazione in bilico su una possibile strada
che
l’attraversa. Il ricordo della capanna abitata
dall’angelo
sognata da Michelucci? Il tutto è sospeso su lunghi rami di
albero, che hanno la funzione di zampe -dice Simoncini-
però, al
contempo, stanno a significare che la natura può e deve
essere
il sostegno dei sogni, delle speranze dell’uomo.








Andrea
Dami da Pistoia
SEGNI DI FARFALLE:
CITTA’, QUARTIERI,
PIAZZA
Non lamiere intonate, non lamiere sonanti che
è il
fare tipico di Dami, con le quali dialogare, ma presenze estetiche da
godersi soltanto visivamente -scrive Siliano Simoncini- pensando al
progettare architettonico. Un omaggio sia a Michelucci, sia agli
urbanisti e ai politici che amministrano le piccole e grandi
città. Farfalle di carta e di metallo.
Dei lepidotteri leggeri e delicati che possono provocare
“l’effetto farfalla” ipotizzato da Edward
Lorenz
(autore della teoria del caos), ci tiene a precisare Dami, parlando
della CITTA’
(un piano di ferro dipinto) caratterizzato appunto da farfalle di
colore verde, una serie di elementi compositivi che danno origine a un
perimetro quadrangolare e lo spazio interno è lo spazio
intelligente (per citare Byrne), perché crea
ordine intorno a sé.
Il segno quadrato è anche il pittogramma della
“nuova” città.
Nell’opera QUARTIERI,
questi
sono evidenziati da quattro superfici quadrate di farfalle grigie (di
carta su carta bianca). Al centro farfalle rosse: le piazze,
perché ogni quartiere deve avere la sua piazza -dice
l’artista- e essere città nella città e
non
più “isola”.
Il terzo lavoro è PIAZZA
(farfalle colorate su carta bianca) perché è in
quello
spazio geometrico che può avvenire l’incontro, la
socializzazione, l’interscambio sia culturale, sia economico.
La
piazza, quindi, deve essere il cuore pulsante del quartiere che la
circonda e non è un’alternativa al parco, o al
giardino
pubblico attrezzato; deve ritornare ad essere lo snodo,
l’interfaccia tra il costruito: il pieno
e le strade: il vuoto.
I colori delle farfalle sono le nostre diversità (culturali,
religiose, storiche) che arricchiscono gli altri e noi stessi, stando
seduti su comode panchine, o attorno a sculture e fontane, o sotto la
luce di un semplice lampione.
L’artista
Andrea Dami da Pistoia ci ha dato la chiave di lettura dei suoi lavori
per questo progetto “Radici”:
«Osservando i disegni di Michelucci (esposti al Centro di
Documentazione di Pistoia), o entrando negli edifici da lui progettati,
si coglie l’importanza che l’architetto
dà alla
materia e, attraverso questa, alla storia del luogo. Due sono i punti
d’osservazione da cui partire, ci dice Michelucci, e da non
tenere separati: uno è il luogo, il paesaggio con i suoi
dislivelli naturali, i grandi o piccoli fiumi, gli alberi, gli animali,
o le antiche mura della città; l’altro
è
l’uomo, con i suoi bisogni primari e, aggiungo io, anche con
i
suoi sogni, per realizzare quell’involucro di cui ha bisogno,
che
dovrà essere inserito o dentro un quartiere esistente con la
sua
storia, o nella natura che ha una storia ancora più lunga.
Insomma un guscio di pietra, di legno o di cemento utile per svolgere i
suoi momenti di lavoro, di studio, di cura, di gioco, di riposo, di
spiritualità, di socializzazione, senza dimenticare che
altri
uomini vivono intorno a lui, ai quali deve dare il suo contributo
sociale perché, a sua volta, da quelli dipenderà
la sua
crescita.
L’uomo è un mammifero e non può fare a
meno dei
suoi simili, come non può fare a meno della natura che lo
circonda, perché da essa dipende. Natura e uomo sono un
tutt’uno e fanno parte di un ecosistema complesso; insomma
sono
un punto fermo intorno al quale tutto deve ruotare. È un punto
zero,
come il primo punto che mettiamo sul foglio di carta per iniziare a
rappresentare un’idea tridimensionale che volteggia nella
nostra
mente. Il disegno della “pianta” del nostro
progetto,
tracciato sul Piano Orizzontale
dell’ideale diedro di proiezione
ortogonale, è un insieme di linee generate da una
continuità di punti, il cui punto zero
ne è l’origine e dovrà avere delle
radici, come
quelle dell’albero, che non sono visibili
all’occhio umano,
ma che affondano nel terreno per nutrirsi. Il nostro punto
zero
dovrà, con le sue “radici”, estrarre
nutrimento
dalla memoria e tenere gli apici vegetativi nella storia,
perché
questa è la premessa per costruire (non in senso figurato)
il
nostro futuro.
Quindi è chiaro che le radici sono importanti fin da quando
si
tracciano segni di grafite sia per costruire un grattacielo, sia per
stendere del colore, magari con l’aggiunta di lamine di ferro
su
un supporto rigido; già all’inizio del
‘900 Walter
Benjamin aveva capito che la rivoluzione è il salto della
tigre
nel passato, non è la fuga in avanti. Si viene colonizzati,
ricorda il regista Jean-Marie Straub (autore di Una volta al Louvre,
Leone speciale alla Mostra del Cinema di Venezia 2006 per
l’innovazione del linguaggio cinematografico), se ci lasciamo
alle spalle il passato -la memoria- e l’Italia è
un paese
smemorato dal dopoguerra a oggi, insomma profondamente colonizzato
dalla cultura capitalista americana. Anche lui è convinto
che
bisogna ripartire da zero, guardando indietro per andare avanti.
Dagli alberi dipendiamo tutti noi, non soltanto per i loro frutti, ma
soprattutto per il prezioso ossigeno che rilasciano
nell’aria.
Sono materia di studio per scienziati naturalisti e chimici
perché elementi primari per la nostra esistenza. Ecco
perché l’albero è importante nei
disegni
michelucciani, un’icona che, oltre ad essere motivo di studio
estetico per le sue forme, è motivo d’indagine per
la sua
struttura geometrica, per i rapporti dei pesi, delle tensioni, degli
equilibri.
L’albero è un punto di riferimento anche per
l’architetto McDonough, il designer giardiniere
come lo ha definito Alessadra Mammì, perché il
progetto
dell’edificio per Abu Dhabi “può fare
tutto quello
che fa un albero tranne riprodursi… Il suo grattacielo, come
un
ciliegio, prende la sua energia dalla Terra e dal sole; crea intorno e
dentro di sé dei microclimi; ha un sistema idrico interno e
una
morfologia che si adatta all’ambiente che lo
circonda”.
McDonough ci dice: «Che il pianeta non ha bisogno di
predicatori
nostalgici della vita rurale, ma ha bisogno di nuovi designer e di
nuovi testi da diffondere nelle scuole del mondo, soprattutto in quelle
dei paesi emergenti dalla Cina all’India». Quindi
l’albero è anche un problema politico,
perché dalle
scelte di una collettività dipende anche la sua
conservazione o
il suo abbattimento; la nostra vita o la nostra scomparsa. Ecco che gli
alberi delle foreste disegnati da Michelucci ritornano attuali e noi
artisti attraverso colori, segni, parole, suoni lanciamo proposte per
progettare una civiltà ideale, capace di fronteggiare le
minacce
con la forza di un pensiero limpido e con l’invenzione di
istituzioni efficaci (come dice: John Casti). Tutto questo passa anche
attraverso l’architettura, perché la
città è
fatta di luoghi murati e le periferie sono invase da edifici pensati
più per l’investimento che per la vita
dell’uomo.
Ecco che siamo tornati al punto zero, che
dovrà essere
presente anche nei disegni architettonici perché ci
aiuterà a trovare la “forma” consona sia
alla
funzione dell’edificio e al suo inserimento nel tessuto
urbano o
agricolo, sia al suo abitante.
L’albero michelucciano è ancora un avvertimento.
Continuando a vedere i segni lasciati dalla penna di Michelucci su
quelle piccole carte, sottili linee che s’intrecciano, si
arruffano, ora si sovrappongono tra loro, ora sono svolazzanti come i
pensieri del suo autore, mi sono tornate alla mente alcune parole
dell’architetto portoghese Gonçalo Byrne: la
ruvidezza, l’acustica, la temperatura, il senso del tempo
è quello che deve avere l’architettura e, ancora, le
immagini devono dare il senso di protezione, il calore delle pareti o
la sacralità di certi materiali. Una cosa mi ha
colpito più delle altre, quando dice, che tutti
gli edifici nascono dalla terra, per cui dimenticarlo
significa creare opere che non tengono conto del contesto,
dell’ambiente circostante, della storia e della cultura che
permeano un luogo.
Oggi nelle città, anche nella mia, assistiamo ad
architetture
prive di radici, sono come sospese da terra in una realtà
più virtuale che storica; rispondono alla moda del giorno,
sembrano comprate al mercato, attraverso riviste-catalogo patinate.
Quindi abbiamo e continueremo ad avere città uguali tra
loro,
siano esse al nord o al sud e non per l’effetto della
globalizzazione, ma per incapacità creativa, nel senso
artistico
del termine, e per mancanza di memoria sia della storia, sia
dell’ambiente naturale in cui si trova quella
città.
Oltre a edifici uguali, astorici, la viabilità ha mangiato
spazi
per le relazioni sociali, per cui la piazza, intorno e dentro la quale
si svolgeva la vita di una comunità, non esiste
più.
La piazza è ormai il luogo di sosta delle nostre auto. La
città è cresciuta caoticamente per decisioni
prese in
emergenza, che è una buona scusa, in quanto giustifica il
fatto
di non aver avuto il tempo di compiere una lettura attenta dei segni
del passato e dell’ambiente, così sono state
ottenute
autorizzazioni a inserirsi sull’esistente senza offrire una
visione chiara sul futuro, su ciò che quella
comunità
vorrebbe fosse il futuro del luogo in cui abita.
L’antico segno architettonico intelligente della piazza non
è stato sostituito da un altro e non mi dite che i luoghi
coperti dei grandi supermercati sono le nuove piazze, perché
sono solo luoghi di mercato. Bisogna ricostruire le piazze ed
è
da queste che bisogna ripartire per ridisegnare l’abitato, un
microcosmo all’interno della città. Insomma ogni
quartiere
ha diritto alla sua piazza, al suo centro collettivo aperto che non
è fatto solo di prodotti da acquistare».
Giugno
2008
Centro di Documentazione Giovanni Michelucci - Pistoia